Ho due gatti e ho scoperto che soffrono della riprova sociale: se una comincia a mangiare, l’altra corre dall’altro lato della casa per emularla. Succede anche con i like su Instagram.
Parto dal principio.
Le persone, le loro scelte, le nostre. Sono guidate, non sono del tutto oneste. Sogni, ossessioni, emozioni: tutto è mediato dalla voglia di autenticità e di originalità che, puntualmente, svanisce come Batman nella notte. In un attimo, compi l’azione e stai lì a chiederti che cosa sia successo. Già, si chiama social proof e ne siamo tutti vittime, colorate di variopinte piume evanescenti conquistate dal fascino dei numeri e delle scelte (apparentemente) condivise.
Social proof, sembra quasi un cuscino morbido su quale il brand può lanciarsi senza paura.
Social proof: fare, dire, amare
La riprova sociale è quel sentimento che ti fa pigiare like quando un numero considerevole di amici ha compiuto il medesimo gesto sotto una foto su Instagram che, forse, nemmeno ti convince più di tanto.
Succede quando scegli un piatto a portar via semplicemente chiedendo al tuo amico di merende cosa ha appena scelto da quel menù fradicio di grassi saturi e di coca zero. O ancora, quando scorri i suggeriti di Youtube e ci vedi influencer che ordinano, comprano, acquistano, indossano, amano quello che le persone davanti a loro ordinano, comprano, acquistano, indossano, amano. E tu hai una voglia matta di fare lo stesso. Di seguire il gregge, direbbe Gustav Le Bon.
Della riprova sociale fa parte anche quest’ansia che mi monta dentro, questa rabbia sorda che mi ingabbia mentre scrivo, che mi scuote i pensieri messi in fila come tanti bei soldatini di latta. “Perché?” – ti domandi, mi domando, ci domandiamo. La risposta è sempre quella: riprova, pressione, condizionamento.
Sembra così negativa. Invece, invece. Il condizionamento è amico delle marche, è atavico quanto loro, è viscerale quanto il marketing, è ossessione liquida per i consumatori. Ed Instagram, e i social, e il web ne sono il delitto perfetto.
Uno spettacolo corale: utenti che influenzano utenti, persone che condizionano persone, anime che richiamano alla danza della conferma delle insicurezze, dello smarrimento e dell’irrisolutezza del consumatore moderno.
Facciamo cose perché le fanno gli altri – vicini e lontani. Siamo ossessionati dall’ingresso nei cerchi magici, nelle community che contano. La storia del consumo è costellata dal raggiungimento ad ogni costo della popolarità che oggi si consuma e misura in like, commenti, followers: sono i numeri della vanità, le vanity metrics. E la social proof ne è il meccanismo regolativo, primitivo ed istintivo. Un carosello da cui è difficile scappare via, una fiera di immagini video testi contenuti costruiti ad arte per piacere (anche senza piacersi).
Quanti condizionamenti, questa società!
Esistono numerose varianti dell’effetto gregge.
Esistono tanti motivi per far parte del gruppo: insicurezza (se lo fanno gli altri, lo faccio anche io), conferma (se lo fanno gli altri, lo faccio anche io), sopravvivenza (se gli altri evitano, evito anche io).
Sussistono, nella pratica della realtà, condizionamenti e condizionamenti, un ventaglio di leve da selezionare a piacere della marca e del consumatore. Già, perché non è solo l’essere umano a subire il fascino della social proof ma anche il sovrumano brand: la volonta di apparire, di conformarsi, di soddisfare è simboticica. Consumatore e marca diventano simbionti nella dipendenza dal piacere, dal like.
I social media sono il palcoscenico perfetto per l’esibizione del musical dei condizionamenti.
La parola all’esperto
Uno dei giochini mentali più sensuali che può essere esercitato sulla mente del consumatore è quello della conferma dell’esperto. Se lo dice lui che è titolato (come una soluzione) allora posso fidarmi. L’opinione di una voce esperta rende coesa la community, diventa collante positivo. Only good vibes.
Immaginiamo i consigli di beauty, food or make-up. Tutto più chiaro, ora?
Pareggiare con il gruppo
E poi c’è il gruppo dei pari, quello sociologicamente rilevante. Quello di cui siamo saturi ma che ricerchiamo continuamente. Quello con cui ci sono le prime condivisioni, i primi innamoramenti comuni. Ci si fida, ci si sorregge, si danza il ballo del consumo tutti insieme appassionatamente.
Qui la voglia di conformità arriva alle stelle e le sorpassa sulla destra.
La community diventa il gruppo sociale per eccellenza da cui ricevere approvazione, in ogni sua forma. Like, commenti, tag, stories. Instagram, poi, propone un humus di crescita perfetto: regala ben quattro dimensioni narrative in cui mettersi in mostra (direct, feed, stories, igtv). Cercare una o più community, cercare di entrare nel cerchio e sentirsi apprezzati, notati e – in alcuni casi, adorati diventa una missione, un compito fatto di like, apprezzamenti ed altre forme di apprezzamento, conformità e riprova sociale che sembrano (quasi e ossessivamente) necessari.
Sarà davvero così?
Parola agli utenti
La questione della riprova sociale riguarda brand e consumatori, questo è chiaro. Quando un utente recensisce su Instagram un prodotto, un servizio, un’esperienza in modo positivo o negativo questo giudizio ha un peso. Un peso che viene espresso e lanciato con storie, hashtag, post, commentato, apprezzato: hai presente un sasso in un lago? L’effetto è lo stesso. La marca, in questo caso, perde il controllo della riprova sociale, in questo caso diventa difficile cavalcare lo tzumani se non sei Chuck Norris.
Prendi il quaderno degli appunti perché questo passaggio è fondamentale: Instagram è un mezzo e come tale lo utilizzano i consumatori ed i brand. Quello che viene dimenticato sono gli utenti a decidere cosa funziona ed il motore del funzionamento di un contenuto è proprio la riprova sociale.
Ecco perché ai brand mancheranno i like su Instagram: il numero di like segnala ad altri utenti cosa funziona, come una gazzella nella Savana. “Sta arrivando il leone”, le orecchie si muovono ed il gruppo si disperde. Adesso non ci sono più segnali sociali per i brand e gli utenti non sapranno più quando sta arrivando il leone, il king, il contenuto.
Content is the king or content? Maybe, la relazione.
Instagram e la fiera delle vanità
Ricapitolando: siamo campioni mondiali di like estremi perché vogliamo piacere e sentirci parte di qualcosa; siamo lottatori di selfie ed altre vanità perché guardare quei numeri che crescono (like, visualizzazioni e dintorni) concilia il sonno al nostro ego; siamo incantati come i bambini di Hammelin da quel finale di stagione della nostra serie tv privata che è diventata Instagram. #ad diventa un obiettivo, uno stile di vita, una necessità.
Nella realtà delle cose, i numeri sono limiti e i consumatori vogliono superarli per arrivare ad essere marche. Sono stanchi di osannare, voglio partecipare. E i numeri, nel mio mondo ideal, ti permettono di raggiungere l’Olimpo degli influencer e delle marche. Vogliono relazionarsi allo stesso livello.
Succede che la marca vuole essere amata, i consumatori adorati. Succede che si vuole misurare l’amore. E allora ecco qui che entrano in scena gli indicatori della performance sociale: il numero di like, di apprezzamenti sociali, di condivisioni nell’etere. Ah, i numeri: l’alimento principale della dieta social(e) di ogni attore della rete. I numeri gonfiano il nostro ego e confermano la nostra influenza.
Eliminare i like e spingere a concentrarsi maggiormente sulle relazioni, con altri consumatori influencer e brand non è solo una mossa di Instagram per farci cogliere questa rosa? Siamo tutti creator, basta spettatori ed attori. Siamo di nuovo tutti sullo stesso livello. Tutti nuovamente uguali. Stastistiche a parte.
Servirà davvero?
Questo post è stato scritto nel settembre del 2019 in esclusiva per l’agency Caroselling. Ogni diritto di riproduzione appartiene a loro.
Foto di Julia Filirovska